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lunedì 29 luglio 2013

ecologia e bellezza

Ecologia e bellezza 1

Il precedente articolo ha suscitato numerosi interrogativi sulla bellezza in architettura e in generale sul concetto stesso. Ci chiediamo che cosa significhi oggi e perchè quello che ci sembrava bello, ad esempio, negli anni cinquanta oggi ci appare sempre più brutto.  Il pensiero ecologico ci viene in soccorso e ci dà nuove certezze anche nei giudizi estetici, tanto aleatori. E' la crisi dei concetti di sviluppo e progresso che ci soccorre.

Almeno dalla fine del XVIII secolo la fiducia nel progresso umano ha sempre sostenuto le ideologie che si sono succedute in Occidente, l'idea di progresso si è poi legata agli sviluppi straordinari della scienza e della tecnica per cui si è insediata nella cultura occidentale la convinzione che da una generazione all'altra ci sarebbe sempre stato un miglioramento delle condizioni di vita. Questo credo nel futuro ha avuto il suo acme nel periodo immediatamente precedente la prima Guerra Mondiale anche nell'arte con il Movimento Futurista che esaltava l'industria, la velocità e la tecnica, i suoi mezzi meccanici e vedeva la guerra come "igiene del mondo".  Ma anche dopo, nonostante le due tragiche esperienze delle guerre mondiali, non ha mai cessato di sostenere le due principali ideologie politiche del 900, quella comunista e quella liberale. Solo a partire dagli anni settanta si è fatto strada, anche a livello degli economisti il concetto di sviluppo sostenibile e contemporaneamente il timore che le risorse potevano esaurirsi nel breve periodo di due generazioni. Questa è la sostenibilità di cui si parla oggi. Naturalmente come la fiducia illimitata nelle tecnoscienze ha prodotto un’estetica anche questa ecosofia produce una sua estetica. Si rimette in discussione il rapporto tra artificio e natura. Che nel caso dell’architettura significa rivedere il rapporto con il luogo: si va da una topofobia ad una topofilia. Voglio dire che nasce cosi una rinnovata attenzione a quello che si rischia di perdere per sempre e cioè il paesaggio. Si rinnova anche un certo interesse ai valori umani e questo cambia anche il nostro giudizio estetico: quello che prima appariva bello perchè generava ammirazione per la volontà di potenza e le possibilità della tecnica ora ci appare incombente e pericoloso per la nostra salute e per quella del pianeta. La bellezza di un edificio risulta essere quindi una delicata alchimia tra la capacità professionale di chi lo ha progettato e costruito, con cura e attenzione al contesto ambientale e umano, e la capacità di chi fruisce di mettersi in uno stato contemplativo che permette di percepire questa attenzione alla vita. Ma questa condizione dei soggetti non puo generarsi che in condizioni particolari di pienezza del vivere e soprattutto di gioia, emozione che passa attraverso l’individuazione e l’appartenenza ed è messa in fuga dal titanismo incombente imposto dal di fuori. Nel mondo globalizzato abbiamo internazionalizzato un modo di fare architettura che vuole fare soltanto marketing al potere del denaro e questo a una sensibilità ecologica non puo apparire bello. L’internazionalismo in architettura vi è sempre stato. Si puo notare che nella storia si alternano momenti di chiusura e momenti di apertura, durante questi ultimi l’architettura regionale arriva a confrontarsi con una tendenza internazionale che la influenza in un dialogo che arricchisce. L’attuale globalismo architettonico senza qualità, provocatorio e sterile, con la potenza dei media e dei tempi ridotti dalla tecnologia non vuole dialogare con un contesto tradizionale e una cultura locale ma vuole dominare e sovrapporsi. Cosi abbiamo il fenomeno di grandi studi che progettano al di là dell’oceano o in paesi lontani senza aver mai visitato fisicamante il luogo ed averne respirato il genius loci. In questo modo non nasce uno stile, che é appunto l’espressione di una cultura che necessita di tempo per essere assorbita, ma si ha solo un fenomeno di colonialismo culturale mediatico che determina impoverimento e omologazione. Infatti si progetta e si costruisce allo stesso modo a Koala Lampur come a Milano o a New York. Se andiamo avanti cosi avremo gli stessi non luoghi in tutto il globo. 

martedì 16 luglio 2013

il Gratta cielo

Il settimanale Sette del Corriere della Sera in data 14 giugno riporta un'intervista al solito Renzo Piano  che appare in copertina, come una star, con un'aria di falsa modestia  sentenziando che forse stiamo esagerando con i grattacieli. Senti chi parla, direbbe qualcuno. Infatti nel contempo difende ovviamente la sua Scheggia di Londra, edificio di oltre 300 metri, la costruzione più alta d'Europa. Afferma inoltre che l'architetto deve essere come un "sensore" che interpreta i cambiamenti della società. Viene da sorridere perché questa definizione in tutta la sua retorica fa invece trasparire quella più volgare che definisce l'architetto la puttana del Potere e suo compito sarebbe quello di interpretare le voglie del cliente. Infatti i grattacieli si fanno con i soldi e ce ne vogliono tanti per costruirli, oggi la tecnologia permette anche grandi altezze, impensabili fin agli anni sessanta, come a Dubai e in Cina, è solo una questione di denaro e questo è concentrato in poche mani che, sia nel mondo occidentale sia nei paesi emergenti, determinano le scelte urbanistiche e architettoniche. Allora si pone inevitabile la domanda: l'architettura la fa il committente o l'architetto? Da sempre l'architettura è un mass-media del potere, ne è la metafora, come ho già avuto modo di scrivere in un mio precedente articolo, dunque segue le stesse leggi. Abbiamo recentemente assistito a una sterile disputa tra Gregotti e Liberskind dove quest'ultimo accusava il primo di progettare per i regimi autoritari come la Cina e questi gli rispondeva piccato che lui invece era al servizio della grande finanza globalizzata. Botta e risposta che nascondono la crisi dell'architetto che vorrebbe essere demiurgo e invece non è che  "servo dei padroni", per usare un'espressione cara al sessantotto ma ormai dimenticata. Dunque un potere arrogante che vuole influenzare i media e incutere riverenza e timore non può che aspirare e stupire con la sfida tecnologica fregandosene del benessere dell'abitante. Ho in pubblicazione un mio libretto dove mi sono sforzato di mostrare che quando la bellezza, sia pure relativa alla propria epoca, ha cessato di essere considerata un bisogno fondamentale dell'uomo si è manifestata la produzione di ogni sorta di provocazioni dettate dall'esigenza di stupire più che di accogliere. Tornando ai grattacieli, sono la dimostrazione del teorema accennato e fintanto che un potere spocchioso e arrogante, sganciato dal territorio, avrà mano libera nella trasformazione urbana avremo questi segni evidenti della sua tracotanza, non reggono le giustificazioni pseudo urbanistiche di risparmio del suolo contro l'espansione a macchia d'olio della città anche perché questi mostri sacri in generale non risolvono il problema di dare una casa alle masse dei diseredati, invece  accolgono uffici di rappresentanza o case per ricchi esibizionisti. Dopo il disastro delle torri gemelle qualcuno aveva detto che il grattacielo era finito, invece si è continuato a costruirne in tutto il mondo e questo dimostra che ai poteri forti non interessano i segni del destino. Comunque qui si ricorda, per chi se lo scordasse, che la forma delle città si decide nelle giunte comunali, almeno da noi, e dunque sono queste, cioè la politica, che dovrebbe porre un freno allo strapotere dei soldi. A Milano l'amministrazione Albertini è stata una specie di Federico Barbarossa che ha stravolto lo skyline della città e la sua identità dando il via libera alla grande speculazione dei gruppi bancari. Il logo di Unicredit sulla "guglia" di Porta Nuova ce lo rammenta in ogni momento. E' vero, come dice Piano nell'intervista citata, che per l'architettura ci vogliono i tempi lunghi e che prima o poi anche queste trasformazioni verranno metabolizzate, salvo i casi, ormai numerosi, di edifici  che dopo qualche decennio diventano ecomostri vuoti da abbattere, tuttavia il costo per la comunità è troppo alto in termini di disagi urbani, non ultimo quello della congestione del traffico, mille abitanti concentrati in un edificio producono circa mille automobili in circolazione, alla faccia di qualsiasi Area C, e per favore non mi si parli di grattacieli ecologici che migliorerebbero l'inquinamento. L'attuale amministrazione risulta essere troppo timida di fronte alle pretese degli speculatori, vedi Citylife e Cerba. Come si diceva tempo fa in uno dei miei convegni, La città dei cittadini, a Milano operano due urbanistiche: una legata ai poteri che hanno costruito la città rendendola invivibile e  che vogliono disegnarne un futuro appariscente aumentando ancor più i problemi di sostenibilità, l'altra che vi si contrappone e che vorrebbe ridisegnare una città più umana. Questa seconda è alternativa sia nelle idee sia nelle forze che la reggono. Le sue radici stanno nei comitati, nelle comunità, nelle cooperative, nei consorzi, nei sindacati e nelle associazioni democratiche della società civile, tuttavia fatica a incidere sulle decisioni generali se non è sostenuta da quei politici ancorché eletti con i suoi voti.

Maurizio Spada